L’Acqua è Bella

di Yves Jaques

 

I

Sono una vena spessa e veloce di minerale ferroso, intono il mio canto nel momento in cui vengo estratta a forza dal filone materno; una grande montagna di zucchero candito, e null’altro; sì sono la vena spessa e veloce che sobriamente corre lungo il lato dello stesso schiocco secco di Dio.

E l’escavatore a cucchiaia che azzanna la mia pelle di minerale, è un mostro; un diesel Cummins a otto litri con il testicolo pendulo appeso alla parte posteriore come il sacco dell’uovo di un ragno, il braccio in continuo movimento instancabilmente fisso.

In avanti e indietro s’innalza/si dimena/oscilla, estirpandomi dalla cava, un insieme elementare di forcipi che tirano fuori il bimbo dal grembo. "Lasciatemi essere sul mio baldacchino basaltico!" urlo.

Dalla cabina l’operatrice bercia insulti, "Stai venendo, ti piaccia o no tesoro!" Un colpo! La tazza cozza contro la roccia, mi lacera le costole, "T’ho beccata ora Madre Terra, ah, ah!" grida la lesbica mentre sputa tabacco, sì, Colei che mi porta fuori, il mio avatar, sta speronando i comandi frizione/premendo con forza sui pedali, colei che non permette ad alcun seme di penetrarla, se non il germoglio di un fagiolo che per caso si trova sulla lingua viscida di un’amante; l’amazzone dal ventre sterile e dalle grandi tette mi porta fuori verso una vita nuova al timone del Caterpillar diesel con i testicoli che governa.

E’ così che per mezzo delle sue mani forti e sicure sono passato dalla vena, alla tazza, al letto. Nel frattempo elevavo il mio funebre lamento ferrico, "Bagnatemi e odoro di sangue, bagnatemi e ho il sapore d’orgasmo." Non l’hai mai notato?

E l’autocarro ribaltabile con me dietro accosta per raccattare un oggetto smarrito. "Ehi piccola, della sporca benzina o dell’erba, nessuno se ne va in giro per niente!" vocia il guidatore. Sento che sale, e dal modo in cui il camion inizia a dondolare giù per la strada, ho l’impressione che il guidatore abbia una mano sul volante e l’altra sul saldo giovane gioiello del saldo giovane gioiello. Ma immagino che ha molta pratica, perché pur palpando come sta facendo, sotto le gonnelle insudiciate di quell’autostoppista quindicenne, mi porta in fretta e furia dal rifugio nel pene di Dio a Smeltertown, U.S.A., con le grita gioiose e senza restrizione della giovane fanciulla che ci accompagnano per tutto il tragitto.

Ma Pittsburgh è proprio un gran posto, e quel giovedì vide la mia vena defraudata, raffinata e consegnata – penitente e vergognosa – al più grande produttore internazionale di vibrillatori e di peni: l’ACME Prodotti per il Piacere S.p.A. Di nuovo fui tramutato in liquido, forgiato a cilindro – la misura in un certo qual modo oltre la leggenda – prima che mani amorevoli mi immergessero in una vasca di cromo, e infine, emersi spendente razzo sessuale.

Il reparto delle vendite mi battezzò "Mr. Big" e il prodotto non stava neppure nella confezione – io funzionavo come promesso – elargendo ciò che le indicazioni sulla scatola sostenevano, "la massima azione orgiastica, l’amante che resta duro tutta la notte," e in stampa molto ridotta, "usare solo dietro la supervisione medica, richiede tre cellule ‘C’, non incluse."

 

II

Per cui, lì me ne stavo appeso a un gancio al "The Crypt", in paziente attesa di un acquirente. Non ci volle molto. Forse un paio di giorni, ed ecco che un tipo dall’aspetto affaticato, avvicinò il viso alla finestrella di plastica, mi osservò, lesse il foglietto illustrativo, e iniziò a rianimarsi un po’. Mi portò al banco centrale e mi depose con gentilezza. Decisi che questo tipo sarebbe andato bene, pareva gentile. Il commesso gli lanciò uno sguardo serio, "Senti amico, ripensaci un attimo, sei sicuro di riuscire a sostenerlo, voglio dire, questa è la nuova linea di Mr. Big, del 1966, voluta per uomini affamati e non parlo di una bistecca svizzera Swanson. Il bimbo è sovralimentato nient’altro che da un turbocompressore." Ebbene, il mio uomo sorrise con dolcezza e semplicemente spinse la carta di credito oltre la riga.

Ed era un buon uomo e io ero davvero un buon amico. Si potrebbe dire che ero il suo zuccherino, stavo lì ad attenderlo pronto a lenire una giornata frenetica in ufficio o una cattiva nottata nei club. Non avevo spazio per le lamentele – come ho già detto, cantavo la mia canzone di ferro, la mia vena veloce e compatta di minerale, caldo dentro le sue natiche strette, intonando le antiche canzoni di pressione e movimento.

E con il battito accelerato del cuore, perfino quando le cellule alcaline che alimentavano il movimento vibratorio iniziarono a svanire, non registrai alcuna perdita di potenza, ma al contrario una rinascita del ritmo atavico; il padrone mi inseriva con destrezza nel portale del suo sphincter ani, e consegnandomi nel suo vestibolo, intento ora al movimento, la facile eccitazione del motore tamburellante - svanita - ed io, io mi sarei perso nei pensieri di quell’escavatore diesel Cummins, il mostro tanto ben manovrato dalla grande lesbica che mi aveva dato la vita su questa terra.

Ebbene, il Grande Libro dice che "tutte le cose devono avvenire per terminare," un excursus che nella mia mente significava entrare ed uscire per quel tenero buco, ma come il Libro dice, i tempi cambiano e ho perso, una volta messo di fronte alle digressioni di un tampone di gomma per il didietro disegnato per un uso quasi costante, e più gentile - mi immagino – alla carne, ma deprivato – ne sono sicuro – del mio fuoco prometeico. Il tampone divenne l’amante e io la moglie piantata, e così avvenne che un freddo mattino di novembre mi trovai, tra un mucchio di rifiuti di metallo, di nuovo in attesa del fuoco degli inferi del fonditore. Sì, il mio padrone mi aveva buttato fuori.

 

III

I Fati che filano tanto alacremente non tessono solo per voi mortali, anche per me hanno intrecciato uno strano racconto che mi vide issato a bordo di una nave da carico capitanata da una testa di legno di Ahab. Sì, fui traghettato sulle fetide acque dell’Atlantico.

La reincarnazione sembrava essere il mio luogo vedico, quando un fonditore milanese mi riportò allo stato liquido. Ero così oppresso e avevo sofferto tanto il mal di mare che non desideravo neppure prendermi dentro quei ragazzi di ferro italiani sudati, ma invece con compiacenza fluì nel nuovo stampo. Fui riforgiato in una bellezza di cinepresa, una Leica 16 mm, di nuovo cromata piacendo a Iddio per il ripetersi di seppur tanto minimi avvenimenti.

E spedita via mare a Los Angeles, v’è forse da meravigliarsi se il mio nuovo occhio senza film ha perso di vista la mia vera anima? Io, concepito dalle fornaci di Vulcano tanto incandescente che il Diavolo non mi poteva tentare, avevo perso la mia stessa anima davanti allo scompiglio della vita moderna. Oh poter cantare ancora una volta in cima al mio baldacchino basaltico.

Una voce alta dice – Oh, Oh, Oh sì!

Una voce profonda dice – Ahhhh.

E ancora una alta – Tesoro, tesoro, tesoro per favore mettimelo qui.

- Dove?

- Qui!

- Lì?

- Oh sì! Lì. Oh, Oh, Oh.

- Uhunh. La mia nuova vita. Forse avevo perso parte del mio precedente tanfo ma ce n’era ancora molto attorno a me – devi sapere che ora ero di proprietà di un regista porno con pochi soldi, uno studente che aveva abbandonato gli studi pensando di riuscire a cambiare il mondo, farlo arrivare ai sensi. E finì per farlo semplicemente venire. Ma è un artista, un sensualista. E’ qui perché ci vuole essere, e a volte è davvero bello.

Emetto dei dolci suoni di avvolgimento mentre attraverso di me, faccio girare centimetri e centimetri ritraendo e ritraendo al contempo – il bianco brillante delle luci dello studio – carne di tutti i colori delle razze umane – lingua e capezzolo – e oh, mio Dio, mi sta zoomando per un close-up, ho un cavallo dei pantaloni bagnato proprio in faccia, forse è il tuo.

Bagnata, bagnata, bagnata la carne bagnata e scivolosa per i Lumi e l’eccitazione, le tue mani che afferrano, la tua bocca aperta ad imitazione, o è che forse? Sì, forse davvero ci si sente bene; e le prese ti stimolano a continuare, i genitali stretti contro coloro che li manovrano, le luci tenute in una mano e le loro erezioni dure/vulve gonfie nell’altra; coinvolti in accoppiamenti occasionali tra le riprese/set/scene/giorni, "Filmiamo quel momento prezioso," urla il Regista, che ottiene il migliore metraggio collocando delle cineprese nascoste nei bagni pubblici.

E sempre quelle urla, le profanità sacre che risuonano nell’aria, si rincorrono in cerchio sul set come gli indiani selvaggi che caricano a cavallo una carovana di pionieri alla John Wayne, "Oh Dio, sì, sì, sì," urli, le prese in un panico davvero orgiastico, "Oh, mettimelo dentro! Mettimelo dentro ora! Più forte, più forte, Oh Dio, voglio tu mi faccia male!" Uno schiaffo! da parte della mano amante.

"Taglia," grida il Grande Regista Maschio e le prese si slacciano verso angoli tranquilli, da solo, in gruppetti di due, di tre; e io, la cinepresa furtiva, sotto l’occhio attento del Regista, ancora filmo, filmo e seguo tranquilla, alla ricerca di quel minuto prezioso che farà venire un’intera nazione.

Attraverso la mia lente prismatica sono passate 4237 fellatio, 2550 atti di cunnilinguo, 492 leccate di culo, il vertiginoso numero di 7200 copulazioni solo nella posizione del missionario e infine, 834 orgasmi simultanei con il sesso alla greca. L’enorme quantità di sperma eiaculato che ho filmato potrebbe inseminare una nazione di fertili spose di uomini sterili. Ho visto degli ani che avrebbero potuto inghiottire zucche intere e lo hanno fatto, ostriche con peli, depilate, colorate rosa/blu/verde, clitoridi dalla lunghezza di una matita e cazzi lunghi quanto una mazza, e oh, gli orifizi che potevano ricevere queste cose – dei mostri – ah gli atti che ho registrato con il mio occhio risoluto dai rapidi ammiccamenti, 24 volte al secondo.

Ma, come ho già detto, i Fati filano anche per me – il Regista che una volta aveva prediletto la mia linea italiana, è passato a una Regina giapponese di Osaka, una 35 mm. Mi lasciò a illanguidire in cima a un armadietto, per un po’ di tempo – anni forse – quando dei ragazzini punk irruppero in casa una notte e indugiarono tanto sulle mie curve italiane che dovettero portarmi appresso e mi avrebbero data in pegno, suppongo, se non fosse stato per il fatto doloroso che i ragazzi si tirarono stinchi, per Dio, e si sono buttati in un’autostrada a cento miglia all’ora in un’area a cinquanta miglia.

 

IV

Detto questo, il mio racconto si avvicina alla fine. Ora mi trovo in un qual modo sminuito dalla perfezione cromata precedente, ma sono ancora glorioso? Per diavolo se lo sono! Mi potete trovare giù al miglio 93 dell’I-455. Il posto si chiama Smoky Creek, un’area di ristoro, non lo sai? Sì, la macchina guidata dai punk è stata fatta a pezzi/stritolata/compattata, e già lo indovini – fu ancora la volta del fonditore – la mia ultima reincarnazione vedica – rinato come muro di un pisciatoio. Potresti considerare curioso il fatto che parli di un’era a venire essendo stato tramutato nel muro di un orinatoio, ma in effetti lo è. Ero un bambino, ora sono cresciuto a uomo.

Capite, un giovane signore intraprendente, e sottolineo gentile perché apparteneva ai pensanti: il tutto era nuovo, il fusto stretto, i denti del buco sembravano dolci e affilati. Era buio pesto, le tre della notte, più o meno l’ora in cui i suicidi si buttano dalle finestre e confermo, ero intensamente grato alla compagnia.

Il dolce fanciullo mi aprì quella notte, e come ho detto, sono glorioso, per Diavolo se lo sono! Dal momento in cui quel signore venne con il suo attrezzo, la compagnia non mi è mancata. Benché non ne sia sicuro, credo che il Buco Glorioso dello Smoky Creek sia diventato in un qualche modo famoso. Ho ospitato diplomatici, ufficiali consolari, dignitari esteri, forse perfino il Re di Spagna.

Ho addirittura visto il mio vecchio padrone entrare una notte, non immaginava neppure che era contro i resti del vecchio Mr. Big che si stava premendo. Il leggendario John Holmes stava aspettando dall’altra parte e quando finirono divennero inseparabili. Big John era abituato al problema e preparato per la contingenza. Prese un vaso di sanguisughe, le agganciò al suo osso bruciante da corriere e gli hanno succhiato lo sciroppo fuori dal suo bastoncino da cocktail a tutta birra.

Oh, lo Stato ha provato a chiudermi, ha inchiodato una crudele lastra di alluminio sul mio orifizio; ho passato il giorno in tormento, ma la notte mi ha portato un rapido sollievo, una giovane cosa rapata dalla testa piatta alla Stanley ha fatto saltare quella bracchetta in un attimo. Forse sei stato tu a farlo. Mi hai sentito chiamare e sei entrato, pronto a buttare fuori il culo all’infinito stellato. Io sono il locus, il buco della ciambella all’universale, io sono la tua immanenza, tesoro; elevo il mio funebre lamento ferrico di sangue, d’orgasmo. Sono una veloce vena compatta di minerale ferrico. Vieni e sì rinato. Vieni e prova un’incarnazione. Non entrare con un dito del piede; Vieni e calpesta l’acqua, ho detto di entrare, l’acqua è bella…

 

Yves Jaques yjaques@tiscalinet.it