L’ultima ala in città

di Yves Jaques

Sei l’ultima ala in città, il cielo un gigante barcollante che urla ‘Fe Fai Fou Fam’ e si strofina le dita sul taxi. Si potrebbe mettere la testa fuori dal finestrino e morire annegati, tanto forte viene giù la pioggia. Ho detto viene giù? Entra di traverso in su e sopra con lo scopo impudente di sagomarsi a incastro.

L’intera città maledetta s’è rifugiata in casa, i marciapiedi arrotolati, le imposte sprangate. E tu sei per strada. Tu, e gli scoppiati – quelli a cui non importa, che non sanno di meglio, o non hanno nessun posto dove recarsi. Sai che non li vuoi sul taxi, ma devi mangiare; hai una donna che adora i fiori, una donna che adora Jim Beam. La tariffa del tragitto è sangue, e il cuore deve battere.

Ecco cos’è guidare un taxi: E’ come ballare con il diavolo; lui ha il violino e tu non sai il motivo. E ancora, a volte è come una chiamata amorosa, e sai cosa fare, come avvicinarti. Ma qualsiasi cosa succeda, ti senti sempre come il ballerino che non conduce; ti affidi come un cieco solo al senso ritmico del Diavolo, nella fissità dello sguardo sui suoi piccoli piedi turbinanti in una visione sfocata. Il Diavolo è la Fortuna, e nessun altro, e guida il gioco che noi taxisti giochiamo. Ed è un gioco serio. Ciò che noi taxisti scommettiamo non è nient’altro che la vita. Oh, vedo che sorridi, ma permettimi di chiederti, quante volte hai sgobbato per una manciata di spiccioli nell’ultimo turno di una notte morta?

Dunque, come stavo dicendo, E’ una di quelle notti in cui sono l’ultima ala in città. I messaggi non mi arrivano più, forse perché dei punks mi hanno spaccato l’antenna, non so. Di ritorno alla base, allora? No. Ho a malapena guadagnato la mia noce, non ho il tempo di stare a mercanteggiare avanzi. Sono un elefante solitario e selvaggio con la radio nel mio Checker verde ruggente – patentato per sette, due sedili a scomparsa, un po’ svergolo in una curva, non male per le sue 500 sul contamiglia, chiavi in mano.

Quelle miglia sono denti, e la macchina ne ha la bocca piena, e vi urla dentro tirandomi pazzo, a girare in tondo disperato per la Pioneer Square, in una notte infame di un giorno di paga con una mistura di ubriachi con soldi, e ubriachi senza. Cerco di trovare un qualche Romeo a cui la fortuna ha girato le spalle. Forse una giovane coppia, lasciare che si cerchino a tastoni sui sedili posteriori mentre veleggio a un dollaro e cinquanta a miglio e spero non vengano troppo in fretta.

Dopo un paio di giri qualcuno mi ferma e accosto, ciuffi di vapore galleggiano fumosi dal cofano. Benché mi stiri per spalancare la porta dietro, lo stronzo entra sul sedile davanti. E’ una cosa che odio. Non ho bisogno di compagnia a questo punto. Non voglio che nessuno si metta nel sedile davanti a meno che non sia mia Madre o la mia donna.

"Dove andiamo stasera?" chiedo, soppesandolo, percependo qualcosa di strano. Non so ancora bene cosa sia.

Il tipo fissa fuori dal parabrezza ormai ridotto a un acquario rotondo. "Burien. 19th e 152nd," dice, con un accento curioso, come se avesse imparato l’inglese in Inghilterra o da quelle parti. Non riesco in ogni caso a individuarlo bene, ma sembra indiano, un indiano dell’India. O forse un sikh. No, non è un sikh; non ha il turbante, è senza barba. Comunque, ogni sikh sulle strade questa sera è dietro il volante di un taxi, come il mio uomo Raji – anche lui lavora per la Classic.

Raji è il più magro figlio di puttana si sia mai visto, come se fosse morto di fame da piccolo e mai fosse riuscito a riprendersi. Di quando in quando gli do uno strappo fino a casa. Una volta mi ha fatto entrare perché dovevo pisciare. C’era un odore davvero strano nell’appartamento, non brutto, solo strano. Ho visto che aveva cibo immagazzinato ovunque, come se il posto fosse un bunker o qualcosa di simile.

La settimana scorsa per la prima volta sono stato sull’autocarro a rimorchio di Raji, giù fino al molo. Cercavo una radio a poco prezzo. Cazzo se non era come stare sul Truce Mietitore. Raji porta quelle magliette da discoteca con disegnate delle figure ancora più fuori dallo spazio, e si copre con un grande trench da fighetto – e qui potrei aggiungere, che indossa fregandosene del caldo e dell’umido colloso. Mi ha detto che è proprio così che fa la gente da dove viene, stare ben coperti, capisci?

Seduto dietro di lui quella volta, con quella testa poco più grande di un pompelmo, e il braccio che si spingeva fuori dalla manica del trench largo e vecchio come un bambino che indossa il cappotto di papà, mi ha tirato fuori di testa. Voglio dire, vedi quella mano sul volante, nient’altro che pelle avvolta sulle ossa; ti viene da pensare merda in che cosa mi sono messo? Raji fa delle buone mance, se le fa. Posso immaginare che la gente si senta contenta di essere nel qui-e-ora e non nell’al-di-là quando si trova di nuovo fuori dal taxi. Un tipo a modo comunque, si toglierebbe la camicia di dosso. Gli piace sempre condividere il cibo che ha. Dio se ti senti strano però a prenderne un po’, come rubare il mangiare a un orfano.

Ma Burien, una buona corsa, trenta dollari e più, mi mette di gran lunga al di sopra della cima della noce. Inizio a pensare vaffanculo, Burien, compero una confezione da sei di birra, e sono a casa – a fumarmi una cicca e a guardare Juiceman in azione con il suo spremi-succo in tarda serata.

L’acqua sta spellando i radiali mentre mi precipito giù per la First Avenue. Le gocce esplodono ovunque sul parabrezza e i tergicristallo non possono neppure sperare di farcela ma non ci penso; conosco queste strade. Ci siamo solo l’acqua ed io e il mio cliente e The Carpenters sull’AM che cantano ‘Close to You’. E non è che la coincidenza più incredibile perché sto proprio riflettendo su come non riesco a trovare il mio colore, il colore giusto della mia pelle. Quello che voglio dire è che sono un camaleonte. Cambio per adattarmi a ciò che mi sta attorno, solo di quando in quando non riesco a trovare il mio colore. Ed è quando non mi sento vicino a nessuno.

E’ che una notte ero lì a saltare da un canale a un altro e mi sono beccato una parte di un programma sui camaleonti, come sanno mimetizzarsi con qualsiasi cosa, cambiare perfino colore se sono incazzati o cornuti o altro. Ho pensato tra me perdio se quello non sono io. Sono un camaleonte a modo mio. Lo sono sempre stato mi pare. Questo programma mi ha portato a vedere me stesso in un modo nuovo.

Funziona così, entra per esempio un cliente e riesco a sentire che il tipo vuole parlare di sport e subito mi viene da dire qualcosa come ‘e allora i Sonics? Non ti sarai forse perso quel canestro da tre punti all’overtime? Merda.’ O forse una donna qualunque, una di quelle che lavorano negli uffici, sale e semplicemente sento che ha un figlio, allora le parlo della difterite, o delle scuole pubbliche o di altro. So che in tutta la giornata sono un centinaio di persone diverse. Sono un migliaio di persone diverse. Non so perché sono fatto in questo modo. Sono così. Non sopporto tutto quel maledetto silenzio che si dipana dal sedile posteriore del taxi, ed io a fissare nello specchietto retrovisore che il cliente non si sia messo a scalciare o che altro d’impensabile. E chi fa le migliori mance alla Classic? Vostro per sempre. Il che va oltre il punto. Come ho già detto sono fatto in questo modo. Semplicemente leggo le persone e divento quello di cui hanno bisogno. Ma di quando in quando il mio radar si proietta su di me.

Come ora. Gli lancio delle brevi occhiate mentre penso, cos’ha questo tipo? Cosa c’è di storto in lui? E penso pure l’altra cosa, che è da pazzi, ma sempre mi ritrovo a farlo comunque – e forse è solo una cosa da uomini – penso ce la farei a metterlo k.o.?

E poi mi arriva. Proprio chiacchierando del più e del meno perché è diverso dal solito, e chiedo, "Cos’è successo stasera?" Ora so cos’è. Non ha il cappotto. Sta piovendo a più non posso e questo tipo non ha neppure l’impermeabile. Allora lo sto a rigirare in tondo per cercare l’angolo, la fessura che mi porterà dentro quando infine risponde alla mia domanda, "Sono appena uscito di prigione," e con quel suo accento strano sembra divertente e pauroso allo stesso tempo.

Non faccio altro che continuare a guidare. Solo un idiota chiederebbe "E per cosa?" Sarò forse semplice ma non sono un idiota, allora continuo ad angolare, solo che quel fottuto angolo continua a cambiare. Comunque, il momento sembra decisamente solenne, voglio dire l’uomo se n’è appena uscito dalla galera. Non doveva dirmelo. L’evento ha bisogno della tazza comune, come si solito si faceva passare in chiesa quando ero bambino. Sembra sacro in qualche modo. Pensando a Raji, e lui che mi fa che un uomo con il quale hai condiviso il pane non può esserti nemico, gli offro una cicca da rollare – cibo da strada per l’anima. Penso che là dove la Bibbia dice che ‘l’uomo non vive di solo pane’ quell’altra cosa di cui non parla sono forse le sigarette. Per l’inferno, datemi un pacchetto di cicche, e una bottiglia di Old Fashioned cream soda e posso pure saltare il pane. O una tazza di Joe e una Navy Player’s Cut – ecco cosa sono il pane e il vino per me.

Bene, guido senza fare una grinza. Stiamo fumando ed è proprio silenzioso, un paio di uomini santi sul Monte Checker, due tribù, guidatore e cliente, e il blocco cilindri pulsante del taxi che ci tira giù per la SR-509. Il cielo è grigio, la mia pelle è grigia. La mia pelle da camaleonte non è mai grigia, ma è come se si fosse spenta perché sono concentrato a pensare cosa mai possa aver fatto, e il silenzio nel taxi è spesso e non ho uno specchietto retrovisore per spiarlo. Per quanto tempo è stato dentro? Ha solo derubato qualcuno, o li ha picchiati a morte? Ha forse inculato una qualche bambina? Sto facendo scorrere ogni possibile atto depravato di cui un uomo è capace e non riesco ad appiccicargliene uno. E’ proprio inusuale. E la domanda più importante che mi sto facendo è se ti danno una ventina di dollari per pagare il taxi quando ti scalciano fuori dalla galera sulla strada? Penso sempre a quel poliziotto al quale hanno sparato di fronte dall’Olympic Broiler per una porzione da cinque dollari. La vita costa poco.

Sono sul pilota autista mentre i miei pensieri ci portano diritti alla meta come quando ci si sveglia a un isolato da casa e ci si chiede come si sia arrivati fino lì. E quell’attimo è qui, il momento sacro dove i soldi cambiano di mano. ‘Soldi dati per servizi resi’ mi piace sempre dirlo. E’ naturale che vada proprio quasi come me l’ero aspettato per tutto il tragitto; deve andare nel suo appartamento per prendere i soldi.

L’edificio è anche molto simile a quello che m’immaginavo, conosco questa città. E’ uno di quelli tipo i primi anni Settanta con i ciottoli fuori, e i balconi che corrono per tutta la lunghezza di ogni piano. Sembrano un po’ troppo dei motel per il mio gusto; danno una sensazione di fuga, e ho notato che attirano un tipo di gente irrequieta, inconcludente. E hanno sempre quei nomi tropicali buffi come ‘Hawaii West’, o ‘Il Molokai.’ Che diavolo c’è di tropicale comunque in un maledetto motel con le mura a ciottoli e le balconate di ferro che corrono tutt’intorno?

M’accoscio e aspetto, e mi accendo un’altra cicca mentre lo vedo sparire sul retro, perso nell’oscurità degli alberi. Dannazione se quegli alberi sono bui e fissi, si sporgono in avanti come se avessero intenzione d’inghiottire l’edificio. E’ il tipo di foresta nella quale vengono nascosti i corpi morti. Mi viene in mente in questo momento che sono forse a due passi da dove l’Assassino del Green River gettava le puttanelle dopo essersele fatte e poi uccise.

Sono qui seduto e ancora me ne sto seduto, e KIXI Light deve aver cantato ogni canzone che i Carpenters abbiamo mai registrato, perché questo pop vagante sciroppato continua a sgorgare dalla radio. Sembra decisamente fuori luogo, come essere in una giornata a mezzo tra il sole e le nuvole. Qui è nero pesto e viene giù pesante. Ma la sua voce risuona così gentile e solitaria. Riesco a vederla su nella sua stanza che aspetta qualcosa, come sto facendo io. Con un’occhiata all’orologio vedo che ho aspettato un casino di tempo, dieci buoni minuti.

Appena ho deciso d’essere pronto ad andarmene e mi sono rassegnato ad essere stato fregato perché non c’è modo che segua quel maledetto rotto-in-culo nel buio, è naturale che il cliente se ne ritorni svoltando l’angolo dell’edificio, gocciolante, e ancora in camicia. Che scoppiato. Eh, riceverò i soldi però.

Arriva al finestrino e fa, "Non ce la faccio ad entrare in casa."

Che scusa del cazzo, penso. Poi dice, "Ho sempre dei problemi con il lucchetto. E’ davvero difficile da azionare." ‘Azionare’, dice, in quell’inglese buffo. ‘Azionare’. Cristo; mi fa pensare all’indiano dell’est che gestisce il negozio all’angolo. Una volta ho fatto un assegno e si è sporto in avanti per guardarmi molto lento prima di dire, "Signore, potrei vedere i Suoi particolari?"

Poi il tipo mi dice, "Potrebbe aiutarmi?"

Se lo posso aiutare? Merda. Questa me la rigiro più volte in testa mentre lo sto a fissare senza espressione. Ciò che in realtà sto facendo ora, è soppesarlo di nuovo. Ce la farei a stenderlo? Non di certo se mi tira un paio di pugni. Posso perdere, comunque, i trenta dollari, questo è sicuro. Ma ancora, e se questo tipo fosse pulito? Se qualche stronzo di poliziotto lo avesse buttato dentro solo perché sembra diverso? Perché non è bianco? Forse non ha fatto un tubo, ma ha passato lo stesso la notte in galera. Ora il misero rotto-in-culo non riesce a entrare in casa, e viene giù da far paura e lui è lì senza cappotto né cappello.

Mi sento come quell’angelo che se ne sta in piedi al cancello perlaceo, e giudica la gente. O come quella scultura sul lato della Corte Federale sulla Fifth; quella che tiene la bilancia. La giustizia cieca; non è questa la verità. Voglio dire, è buona la gente? Sono forse buono? Merda non so neppure se sono buono. Una volta un cliente mi ha detto ‘sono tutte bestie.’ L’ha detto come se fosse scritto con una ‘p’. Era tedesco penso. In testa ho le parole che dovrei dire, "Cazzi acidi, vecchio mio," e lasciarlo lì in piedi sotto la pioggia. Ma maledizione, le parole non mi escono. Prima di sapere quello che sto facendo ho già aperto la portiera e sto uscendo mentre dico, "Va bene, provo a darle un colpo." Fuori di testa. E allora mi tiro su il bavero contro la pioggia e inizio a seguirlo verso il retro, in quella foresta bagnata e buia.

Mentre cammino proprio non riesco a capire. Dov’è quel momento quando dice ‘sì’ o ‘no’ a qualcosa? Voglio dire non so proprio come i piedi mi abbiano messo qui e come mi spingano pure in avanti. Un secondo e sono seduto nel taxi dignitoso come un figlio di puttana, a soppesare le possibilità come se fossi un intera corte di giurati. Quello che non sapevo è che la vittima del caso ero io. Ora, eccomi qui; a seguire questo scemo nel mezzo della notte, sotto la pioggia, nel retro del Molokai che probabilmente significa "fesso morto" in Hawaiano per quello che ne so io. Mi sembra di essere Wily il Coyote in un cartone animato Roadrunner, a fissare al di sopra di un canyon che penso dovrei saltare solo che scopro che ho già spiccato il salto e sto scalciando sopra il dirupo a tutte gambe.

Proprio così. E’ questa la risposta, non è vero? La bilancia che la giustizia tiene in mano non misura il peso di niente, è una stupida altalena, un inganno suadente, e o ci salti dentro e urli "whoopee" o non lo fai. E se non ci salti dentro vuol dire che non dovevi saltarci. Questo è parlare a vanvera. Te ne stavi a fissare l’uomo che ti stava abbindolando come se lo avessi fatto ma sapevi dentro di te che non ci stavi neppure pensando. Lo avresti o non lo avresti fatto. Non c’è nessuna decisione da prendere. O come nel mio caso. Facevi solo finta che avresti aiutato qualcuno, o forse stavi pensando di aiutare qualcuno. Ah ti risulta proprio comodo essere per una qualche ragione un tipo buono perché ci stavi pensando. Allora puoi nella tua testa sentirti un samaritano. Gesù. Ma io, ho iniziato a saltare sopra quel maledetto canyon, e come nel Roadrunner, non so se ce la farò. Solo una cosa: non sono di certo Wily il Coyote che riesce a riprendersi da sotto un masso che mi si è atterrato in testa. Cristo.

E allora sono qui a fissare quel canyon. Sono in volo. Le piante sono una calca da football e stanno pianificando una strategia, mi si stringono attorno a morsa, come in uno di quei circhi dell’associazione dei Poliziotti ai quali mi portava Papà. Te ne stai seduto in prima fila e capita che il cavallo che si esibisce ti caga addosso. Tutto è bagnato, e tutti quei piccoli suoni notturni sono lì vicino, mi sussurrano pazzo nelle orecchie. Penso, una volta che hai condiviso il pane con un uomo non può esserti nemico. Di nuovo le parole di Raji. Spero che il mio cliente le sappia pure lui. Dovrebbe, ha la pelle del colore giusto. Ma poi ancora, credo che il colore non significhi molto.

Mi porge le chiavi e ne indica una, poi l’altra. Ne provo una nella serratura. Nel frattempo lancio delle occhiate indietro rapidissime in una giga nervosa, le mani mi tremano sul pomello. Mi lancia uno di quegli sguardi seri. Dio se non mi sento tagliato fuori, e maledettamente fradicio.

Mi rendo conto che il chiavistello è stato montato storto, allora tiro la serratura all’indietro. Fin qui tutto bene. Riesco a vedere nello spazio tra la porta e l’intelaiatura che il chiavistello è libero. Mi guardo ancora alle spalle. E’ fin troppo vicino perché mi senta a mio agio e mi ricordo che è proprio così che sono quasi tutti gli stati – sono più vicini di quello che siamo noi. L’ho visto con Raji e con i suoi amici Sikh; nelle loro rispettive facce e non stanno neppure combattendo. Ed ecco, una goccia di fetore freddo da sotto l’ascella mi cade lungo il torace.

Ma il chiavistello del pomello. E’ una vera puttana. La chiave vi si infila male, un brutto taglio del fabbro. Non gira né da una parte né dall’altra. Di nuovo butto un’occhiata dietro. Mi sta giusto sopra la spalla. Non riesco a vedergli le mani. Dove ha le mani? In cerca di un coltello forse. Cerco e gli leggo il viso. Non c’è modo. Lo stesso sguardo serio.

"Penso sia questo il problema," dico, sorridendo con quella che spero sia una faccia che sembra naturale. Tiro fuori la chiave, la controllo con la controparte, il buco. "Un brutto taglio, penso," dico un po’ troppo a voce alta. Mi fa un breve cenno col capo, come se forse non sappia di cosa sto parlando, o come se avesse i pensieri da un’altra parte. Non so.

Se mi fermo a pensarci, gli stranieri quasi sempre mi fanno ingrigire la pelle. Ad eccezione degli uomini d’affari giapponesi. Ne ho avuti molti sul taxi. Ho imparato a leggerli molto tempo fa – di solito si parla di baseball e di dove possono trovare una ragazza squillo, il che si avvicina molto a quello che farei io all’estero. Ma altrimenti, sono perso. Lascio il genere a cui appartengo e sono nello spazio. A Vegas mi inculano. Andassi a Monte Carlo mi ripulirebbero del tutto. O forse no perché neppure loro riuscirebbero a leggermi. Ce ne staremo tutti lì seduti a fare ‘come diavolo riuscirò a ingannare il tipo’. Visto che la vita è in ogni caso un’unica grande presa in giro, forse ci prendiamo per il culo quando pensiamo perfino di essere capaci di leggere il nostro genere.

Con un ulteriore occhiata, mentre penso pugnalami ora se vuoi farlo, con attenzione metto la chiave nella serratura in basso, ridacchiando un po’ tra me di come la sto pugnalando dentro. La dondolo con cura dentro e fuori a piccoli passi, tastando per trovare il punto dello scatto, o qualsiasi cosa si chiamino le viscere di una serratura.

Lo colpisco. La chiave ritorna a casa in uno strattone acuto verso l’alto; la serratura gira dolcemente ma cigolante, a destra questa volta il verso in cui dovrebbe girare una serratura. La porta si spalanca e mi tiro rapido da parte, pensando non è che ora mi spinge dentro. Sono pronto a tutto. Gli porgo le chiavi e lui le prende dal mio palmo bagnato, mi scivola vicino in un modo strano che mi sembra troppo liscio per un uomo.

Non ce la faccio a resistere, m’inoltro di alcuni passi dietro di lui, attorno all’angolo dell’entrata. La prima cosa che mi si affaccia alla mente è che non ha affatto l’odore del posto di Raji. Forse ragiono, è perché non è da molto che vive qui. E non c’è cibo nascosto. Si vede che non ha patito la fame da bambino.

Riesco a vederlo nel salotto che cerca come un pazzo tra pile di vestiti e di giornali. Vuole sbarazzarsi di me. Va bene. Ma il posto è ben vuoto, come se ci fosse appena stato l’uomo a riscuotere l’affitto e si fosse portato via il mobilio. Sento ora che mi sta ritornando il colore della pelle, il territorio sembra famigliare, la paura sta scomparendo. Il sapere che è tanto smanioso di sbarazzarsi di me quanto lo sono io di lui, mette di nuovo Wily sopra il canyon e dall’altra parte.

L’appartamento è un disastro, vestiti ovunque, una sedia buttata a terra. Sembra ben più del disordine di un uomo solo; come se ci fosse stata una rissa, forse. Infine trova il pezzo giusto del vestiario, una camicia da vestito bianca luccicante, nuova, cosparsa di un colore rosso morto e profondo di sangue asciutto e stagionato da giorni. La pelle mi si ingrigisce di nuovo, pensieri ovunque sulla mappa, visioni di lotte con coltello e armi da fuoco e sarò obbligato a portare questo figlio di puttana chissà dove mentre mi punta una pistola al collo? Cristo le cose si mettono male. Di nuovo sono in quel maledetto cartone animato con le gambe che scalciano sopra il burrone. Cosa ho fatto? Chi sono? Le viscere mi urlano alla pelle da camaleonte. Perché sono qui e non sprofondato nella mia poltrona Barco a guardarmi le seconde visioni in tarda serata di Hawaii Five-O?

Proprio dal taschino della camicia, è naturale sia quello macchiato di sangue, tira fuori un rotolo di banconote, ne spella un biglietto da venti e uno da dieci, e sono contento vengano dall’interno del malloppo e non ci sia sopra del sangue.

Mi porge i biglietti. "Grazie per avermi aiutato ad entrare in casa," dice. "Fa freddo e piove così forte fuori."

Cerco di trovare il resto in tasca, pronto a rendere tutto il più normale possibile – soldi dati per servizi resi – e mi dice "Tenga il resto. Se l’è guadagnato."

Se l’è guadagnato. Niente da ridire. E marcio lento, come Gesù sulle acque, solo che sono su di un parcheggio, udendo ogni singolo passo scivoloso che rimbomba come la vita, e mi ricorda delle risaie minate altrettanto tranquille fino a quando ‘boom’ le acque si aprono e il tipo davanti a te viene spinto in alto in uno spruzzo rosa bagnato per incontrare il suo creatore. Non saprai mai quando ti bucano il biglietto. Sento tutto, l’umidità nel bavero, le gocce sul collo. La schiena al muro di tutta la vita. Mormoro tra me un ritornello, ‘Close to you’, ecco cos’è. Mi sento tanto vivo, e ridacchio a pensare che buon bambino cristiano sono, proprio come tutte le nostre donne vogliono siamo. Un tale samaritano. Penso ancora perché l’ho fatto. Come sono arrivato in quel cartone animato. Ma Wily lo sa forse perché caccia quel fetente di uccello? Sa forse l’uccello perché scappa? Tutto quello che so è che ho saltato sopra il canyon e sono atterrato dall’altra parte. Ma sono forse migliore per questo? Chissà. E’ sempre la solita storia – il diavolo che suona il violino e non ne so abbastanza neppure da fischiettargli dietro.

Yves Jaques yjaques@tiscalinet.it