La Luce in fondo al Corridoio

di Gaither Stewart

 

Novembre 2001

 

Il conte Ronald de Ronaldo Bonnefond abbandonò il suo rilassante sogno ad occhi aperti di vecchie glorie e, a poco a poco, tornò cosciente. Immobile sul lato destro, gli occhi chiusi, le ginocchia piegate e la gamba sinistra incrociata a destra, proferì a bassa voce il suo proposito mattiniero: “Oggi non berrò.”

Stranamente, non era tardi come al solito. Gli sembrava di tornare da una specie di morte. Ogni mattina era la sua personale resurrezione. Ricordava che era stato sveglio all’ora del Bevitore, la sua gola era riarsa. Dopo un continuo rinvio, scivolò dall’alto letto a carponi e lottò, nel buio, sul pavimento di legno duro per colpa della bottiglia d’acqua minerale Santa Maria. Odiava bere l’acqua di notte, perché inevitabilmente un’ora dopo doveva andare al bagno.

Preoccupato dalle tenebre sugli eventi del giorno precedente, prima che cadesse nella nullità, si agitava e sudava al pensiero dei conti di casa in aumento, che non avrebbe mai pagato, e poi, a turno, sognava ad occhi aperti o cercava di ricostruire il giorno prima. Ora gli sembrarono alcuni giorni mentre oscillava tra la relativa sobrietà e l’impenetrabile oscurità, tra la coscienza di essere ubriaco e il buio dei suoi inferi.

La consapevolezza di essere ubriaco gli sembrava un progresso. Sempre meglio di un blackout! Era quasi tentato di complimentarsi con se stesso.

Dovevano essere state le 4 o le 5 di mattina, quando si era girato e aveva cominciato a ricostruire una scena preferita della sua dorata giovinezza: una reception della mansion di famiglia di Mexico City in Las Lomas. Il discendente dei discendenti dell’alto ministro dell’economia del regime di Porfirio Diaz, uno degli “uomini saggi”, era vestito in un abito di lino bianco e un sobrio foulard. Il portasigarette d’avorio in una mano e un sottile bicchiere di champagne, tenuto con nonchalance nell’altra, scendeva il lungo corridoio seguendo la curva della larga scalinata. Lui, il conte Ronald de Ronaldo Bonnefont, stava molto più in alto dei suoi 5 piedi e 5 pollici. A lui piaceva ricordare specialmente, ancora e ancora, le scene nelle quali lui, l’esteta di famiglia, si muoveva tra gli ospiti risvegliando l’invidia di tutti nel modo col quale salutava gli ospiti in inglese o in spagnolo, portoghese o francese, riferendosi sempre a qualcosa di personale: una domanda al pittore sulla nuova mostra d’arte, un apprezzamento al poeta per la nuova raccolta di poesie, una lode all’architetto per la nuova splendida casa del week end, vicino Acapulco.

 

2.

 

Ah, non c’era da meravigliarsi se lui, una volta, era stato uno dei leoni sociali più richiesti dagli eleganti salotti di Mexico City!

Alcuni piacevoli ricordi lo riportavano, alla fine, nel sonno. Come la mattina avanzava e la parte più fredda del giorno sulla pianura arrivava, il conte si svegliava di frequente e, se si agitava, sudava e gettava via le coperte. Ma quando tornavano alla memoria dei bei tempi, erano piacevoli il gelo mattutino fuori e il rannicchiarsi sotto la morbida coperta di lana.

Grazie a Dio l’ultima ora aveva dormito. Si sentiva rinfrescato. Sorrise tra sé quando sentì la fitta di un’incipiente erezione. Allora si ricordò del sogno della notte precedente. Stava remando una piccola barca, su un lago, sembrava, verso un’isola. L’isola era dominata da un castello. Le bandiere sventolavano dai bastioni. All’inizio remava lentamente. La scena era piacevole; finché cominciarono ad apparire altre barche ai lati, i rematori e gli altri sulle barche aguzzavano gli occhi verso di lui, provocandolo. Rema più veloce! Rema più veloce! Era una gara fino all’isola. Ma no, ora era in mare aperto e le altre barche erano svanite. Enrique stava in barca con lui. “Rema più veloce” stava gridando Enrique, incitandolo, provocandolo “Rema più veloce!” “Dove, dove?” urlò. All’orizzonte c’era solo orizzonte.

“Andale, Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont” pensò “devi aprire gli occhi. Restando lì, nel letto, con gli occhi chiusi, rannicchiato nel bozzolo della sua realtà, si sentiva al sicuro. Tutto era sotto controllo. E c’era l’erezione. La confusione e il pericolo erano fuori, là, nel mondo reale, dove non controllava più niente. Aveva paura di quello che avrebbe visto una volta aperti gli occhi.

Ma la vescica piena cancellò l’oblio e la paura. Trascinò le gambe verso il lato del letto, poi sul tappeto a fianco e lentamente si sedette, gli occhi ancora chiusi. Poteva arrivare al bagno alla cieca. Esitò, poggiò il piccolo piede destro sul pavimento in terracotta ghiacciato e restò quasi senza fiato per lo shock. Si sforzò disperatamente di assumere una qualche posizione in piedi. Quando fece il primo passo, le sottili gambe vacillarono e quasi si piegarono. Gli girava la testa. Aprì gli occhi.

“O Cristo,” gemette, guardando intorno la confusione di scarpe e vestiti. “No! No! Assolutamente non devo bere oggi. Faccio voto!”

 

3.

 

Appoggiato al lavandino, il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont svuotò la vescica, gli occhi vaganti dalla pancia sporgente perfettamente tonda fino alla doccia. Sgocciolò il pene a lungo. Che sollievo! Grazias a Dios, non soffriva di mal di testa. Del resto non l’aveva mai. Avrebbe dovuto farsi una doccia. L’acqua era allettante, ma lo sforzo di cercare gli asciugamani e la biancheria puliti era di là delle sue forze. Mise la testa sotto il rubinetto e decise che si sarebbe solo rasato e avrebbe usato molto deodorante.

Sulle magre gambe, pallido e calvo come gran parte del suo corpo, barcollò dietro al comodino per i bicchieri, percepì la strada per il bagno e cominciò una minuta ispezione del suo viso nello specchio alla parete. Conosceva il suo corpo: l’attaccatura dei capelli continuava a recedere, la tinta bionda era scolorita e la perdita dei suoi capelli mostrava il suo naturale grigiore. I suoi occhi, una volta celesti, erano infossati nello stretto cranio, senza colore, ad eccezione delle misteriose linee delle vene pulsanti. La sua barba era così chiara che era tentato di tagliarla.

Ma no! In un flash si ricordò che oggi era un gran giorno: il ricevimento annuale dagli Zavala. Per beneficenza agli orfani, o qualche altra simile nobile causa. Non poteva non fare la sua apparizione, sperava si trattasse di uno spettacolo dignitoso come beneficio del suo nobile lignaggio. Non era oggi? Tutti, anche quelli che erano nessuno, sarebbero stati presenti. Perciò oggi non doveva assolutamente bere fino a che non fosse stato nel gran salotto e avrebbe salutato, in modo sobrio, tutti i nobili della città. Sarebbe andato da solo. Di certo non con quei damerini, uomini gigolò del suo squallido entourage. Avrebbe preso un taxi nella serpeggiante strada vicino il Chorro e sarebbe sceso con dignità da… da un taxi bianco e verde??

Mais non, c’est impossible. Avrebbe preso una limousine. Proprio perché sono un ubriacone, come dicono loro, e anche gay, non sono da meno di quei cittadini ipocriti. Chi pensavano di essere loro, comunque? Una banda di nullità, ecco chi erano. A Mexico City nessuno di loro, nemmeno Maria Gracia Zavala stessa, avrebbe potuto attraversare la nostra porta.

Con i pollici tirò su la pelle vicino gli occhi e si chiese se non avesse avuto il taglio degli angoli cadenti e avvolti, i suoi occhi erano diventati semplici fessure che attraversavano i lati della sua faccia devastata, come schizzata da un caricaturista.

 

4.

 

“E allora,” sussurrò” che importa veramente? Questa persona nello specchio non sono io, ad ogni modo. Certo che no! Forse ho dimenticato chi sono, o chi ero… ma so che tu non sei il vero io.”

Fissò duramente il riflesso. Sembrava che avesse sempre visto solo un riflesso di sé stesso, come se si trovasse al di fuori della propria vita. Guardò con cipiglio il sé stesso riflesso quando, dal suo inconscio, il ricordo di qualcosa di spiacevole apparì di sfuggita. Che cosa stava cercando di dire? Era qualcosa che avrebbe dovuto ricordare. Che giorno era oggi, comunque? Il ricevimento era veramente oggi? Oh Dio, fa che sia domani! Ma se il ricevimento era oggi, allora sabato, ieri… era ieri, o Dio! Ieri era il giorno che avrebbe dovuto pranzare con una nuova coppia in città. Aveva invitato tutti gli amici alla sua prima comida in tanti mesi.

C’era stata? Si chiese.

Guardando curiosamente attraverso gli occhiali nel punto più profondo dei suoi stretti occhi, gli sembrò di vedere una leggera luce in fondo ad un corridoio nebbioso, come l’impronta della lontana memoria. Sbirciò per filtrare tutto ma la cosa tremolante giù in fondo, gli sembrò essere la solita immagine paterna.

Ma no, non era il suo severo padre che faceva la lavata di capo sul le droit chemin. Sorrise, sollevato. “E’ la fiamma del mio futuro.”

Cominciò a vedere, invece, se stesso nel salone dei ricevimenti al piano inferiore. Era circondato da un ospite, i suoi ragazzi gli giravano intorno offrendogli drink, la sua figura ombrosa si sporgeva per esaminare gli ospiti – ma chi erano? Stavano seduti sulle sedie messicane e sul salotto di velluto. Un ospite, doveva essere… è, perché è quel picchiato, Aaron. Aaron gridò “Johnny Walker, Johnny Walker.”

Vide il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont cominciare ad affievolirsi, il suo profilo frastagliato traballare in modo grottesco, il suo vestito cominciare a scolorire. Forti braccia lo stanno spingendo indietro, giù, giù, giù per il corridoio. Con le mani tese verso il salone, sussurra rauco “Voglio stare con i miei ospiti, devo restare, o, per favore, lasciatemi restare, è il mio party.”

Ricordò. Era poco prima che si svegliasse la prima volta per vedere se era giorno, di nuovo giorno, o ancora giorno, non sapeva quale. Era ancora molto ubriaco.

 

5.

 

Ronald non riuscì a ricordare la comida, ma riuscì a sapere cosa era successo. Quante volte gli amici più stretti, o i compagni di bevute, o gli amanti, gli avevano raccontato le sue avventure nei minimi dettagli. Era un miracolo che il suo fegato non si fosse spappolato! Strano che oggi non era in ospedale. Si guardò negli occhi.

“Sto morendo”, disse “Posso sentire l’odore della morte che si avvicina.”

Dovrei partire da qui. San Miguel è il responsabile. E’ questa gente ubriaca, che ama bere. Sono i ragazzi. Mi fanno ubriacare, così possono derubarmi. Quasi tutto quello di valore è già sparito dalla mia casa. E loro rubano i soldi dalle mie tasche. E’ quell’Enrique. E’ il peggiore. Solo perché è così bellissimo pensa che io gli appartenga.

“Un giorno” disse alla sua immagine riflessa “una mattina prima che mi diano il primo drink e cada in loro potere, troverò la pistola di mio Padre e farò esplodere le cervella di Enrique.”

Improvvisamente sentì dei rumori al piano di sotto. Indossò la sua vestaglia color porpora, ora leggera, ma ancora la preferita, e scese le strette scale con attenzione. Rimanendo in piedi a stento, in fondo all corridoio, vide la fedele Margarita in cucina, e, a destra, nel salone annesso, Enrique e alcuni amici oziare sul divano velour. L’altro sembrava familiare, probabilmente uno di quei gigolò che Enrique portava nel letto di Ronald, cieco, mentre gli altri lo derubavano. Come li odiava!

“Henry!” anglicizzava il nome in un inutile tentativo di dare al giovane villano un po’ di stile e raffinare la sua rozza natura – parlò per avere la sua attenzione, perché veramente non aveva niente da dirgli.

“Che ore sono?” chiese in inglese

“Tardi!” grugnì Enrique. “Pero temprano para ti!” aggiunse qualcosa di malizioso e fece un sorrisetto al giovane seduto accanto.

E’ il diavolo. E’ il diavolo in persona. Pensano che sia cieco e stupido, che non mi sia accorto che mi derubano regolarmente. Pensano che sia solo un beone. Come molte persone a San Miguel, perfino i miei migliori amici, Enrique e la sua marmaglia mi considerano un ubriacone, non un alcolizzato. Almeno un alcolizzato è considerato un uomo malato che suscita pietà. Ma un ubriacone è solo un ripugnante, volgare vigliacco.

Oh, se solo fosse potuto scappare da tutto questo! A volte, quando era sveglio, conscio d’improvviso d’essere vicino alla fine del corridoio, pensava a gesti drammatici per cambiare le sue condizioni. Sarebbe potuto tornare in Francia. Suo nonno, d’origine francese, e gli studi al liceo e all’università di Parigi lo avevano reso in parte francese, a volte si considerava più francese che messicano. Le sue origini francesi sembravano ancora meno importanti qui, in questa città di villeggiatura, con tutti i suoi stranieri e i messicani eccentrici, fuggiti qui da Mexico City. Siamo tutti pecore nere, pensò distrattamente. Bene, vedranno, il giorno che riceverò la mia eredità!

 

6.

 

Prese da Margarita il solito caffè nero e andò nel salotto posteriore, chiuse la porta, mise una sigaretta in un portasigarette d’avorio, e si sedette per telefonare a un paio di amici e sapere del suo party. Sospirò, sollevato, quando il vecchio Antonio, trasandato, lo ringraziò per la splendida festa. Così stabilì che il suo party c’era veramente stato. Chiamò Isabella, una ricca vedova avara che partecipava ad ogni party a casa sua da anni, per avere i dettagli più piccanti.

“Bene, prima di tutto, loro ti hanno messo a letto prima che quasi tutti gli ospiti fossero arrivati” disse e rise istericamente.

“Oh, no!” ansimò. Che vergogna! Che peccato!

“La metà di loro non ti ha proprio visto, ragazzo cattivo cattivo che non sei altro! Ma sai, è stato divertente: sembravi perfettamente sobrio finché all’improvviso ti sei rovesciato dalla sedia. Enrique ti ha preso e hanno dovuto portarti su per quelle scale serpeggianti. Non c’è niente di più pesante di un ubriaco! Ha detto Enrique.”

“Un giorno lo ucciderò,” mormorò il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont “Pensa solo dii conoscermi… ma non mi conosce affatto.”

“Cosa?”

“Ho detto che un giorno gliela farò pagare. Ce n’est point gratuit, ça.”

“Perché non gli chiedi semplicemente di andarsene?”

“Non so perché… forse perché dipendo da lui. Ma lui e i suoi amici ridono di me e mi chiamano “l’ubriaco”. Pensano che sia un babbeo per tutti i loro intrighi.”

“Oh, Ronnie, sei una tale figura! Bè, nessuna notizia dai tuoi avvocati?” Ogni volta per Isabella le loro rispettive cause legali erano un discorso fisso. La causa di Ronald riguardava la parte del considerevole patrimonio lasciato dal nonno, in gran parte in Francia, da dove il “mago economico” era scappato al tempo della grande rivoluzione messicana; la causa di Isabella, invece, era una battaglia legale tra lei e gli eredi del primo matrimonio del defunto marito sulle proprietà a Mexico City. “Niente di preciso. Ma ti assicuro che quando avrò la mia parte, sarà l’adieu a San Miguel. Non sono tagliato per questa vita… Oh, cara, volevo chiederti come hanno preso il mio…ehm, il fatto di essermi ritirato in anticipo il professor Austin e la moglie. Desideravo tanto fare una buona impressione su di loro. Dicono che sia un famoso architetto negli Stati Uniti. Abbiamo parlato un po’… oppure abbiamo preso un cocktail insieme?”

 

7.

 

“Bè, l’impressione l’hai fatta! Sì, avete bevuto insieme… prima che ti trascinassero via. Sembrava sorpreso quando sei crollato.”

“E’ tutta colpa di Enrique! Lo sai. Conoscono la mia debolezza e mi spingono a bere non appena mi sveglio la mattina. Ora gli Austin non torneranno più!”

Sapeva che la sua vita sociale era andata a rotoli per il bere. L’etichetta di beone, la causa di 25 anni, e ora Enrique: era troppo da sopportare.

“Va bene, Querida,” sospirò “Verrò a prenderti per il ricevimento. Verrò con la limousine, ovviamente.”

Dopo un altro caffè, questa volta corretto col cognac, uno o due bicchieri di sherry, due gin tonic bevuti in rapida successione prima di uscire, a grandi passi, dalla porta e salire sulla limousine, ottimista, allegro e forte. Erano le 5 e aveva la giornata in tasca, tanto per dire, con la sottile fiaschetta di Remy Martin.

Il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont negoziò la tariffa oraria con l’autista, il solito Alvaro, lo pregò di indossare correttamente il cappello da autista e gli diede l’indirizzo di Isabella. Disse all’autista muto che sarebbero passati in diversi posti in città prima di tornare al palazzo sulla collina, che non era più di tre minuti a piedi da casa sua.

Pianificati i dettagli, si accomodò sul lussuoso sedile e si concesse una lunga sorsata dalla fiaschetta. Questa era ora la vita cui era abituato, la vita che quasi certamente meritava. Se non fosse per quello spregevole Enrique! Ma erano già da Isabella. Dopo la suonata dell’autista, li fece attendere i dovuti quattro minuti, prima che il domestico Otomi aprì la porta del patio e rimase sulla porta finché la padrona non salì nella limousine, augurandole una buona serata.

Fuori l’Ancha de San Antonio, Ronald indicò all’autista di arrivare fin sotto l’entrata del lussuoso Hotel Real di Minas e chiese a lui e a Isabella di aspettare lì sotto. Attraversò l’open bar nel centro dell’atrio caotico, fece cenno ad alcune persone che non conosceva affatto, si fermò ad esaminare un dipinto vicino alla reception, sollevò il telefono interno e, dopo aver fatto finta di comporre un numero, appese con aria di disapprovazione.

 

8.

 

Mentre tornavano lentamente alla collina lungo Hernandez Macias, il Conte offrì la fiaschetta a Isabella. Presero a destra per Umaran, girarono intorno al Jardin, scesero per Calle Reloj e girarono a sinistra in Mesones per fermarsi di fronte al Peralta Theatre. Ronald guardò la folla riunita per un concerto di musica da camera. Prese un altro cognac. La limousine parcheggiò, il Conte entrò nell’atrio del teatro, facendo cenni di saluti a persone estranee a destra e a sinistra e, davanti al botteghino, manifestò disappunto perché i migliori posti erano già prenotati. Scartando l’idea di un drink da Tio Roberto, tornò alla limousine, diede un colpetto sulla spalla di Alvaro, e disse “A Palazzo Chorro, brav’uomo!”

Meno di due ore dopo, Alvaro, senza cappello, la cravatta storta, anche lui un po’ ubriaco - il generoso Ronald gli aveva lasciato la fiaschetta di cognac mentre entrava al ricevimento – trascinò il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont alla porta principale della sua casa e lo lasciò nelle mani di un Enrique in attesa.

Era già mattina quando si svegliò la seconda volta. Giacendo nel buio della stanza, vide chiaramente la tremolante luce verso la fine del suo corridoio. Nel suo sogno era un corridoio silenzioso. Un corridoio di anime dannate. Aprì gli occhi nel buio. La lampada era ancora lì. Fluttuava, tremolava, segnalava. Il capostazione in una gare di una città di provincia nella Francia del nord gli stava facendo segno. Che cosa significa? Si chiese.

Distese i piedi sul tappeto e… improvvisamente, era in piedi in fondo alla scalinata. E loro erano lì: Enrique stava sdraiato faccia in giù sul salotto di velluto, due di loro erano sdraiati ai lati su una grossa moquette e altri due, quasi nudi, stavano dormendo sul divano letto nel secondo salone.

“Bevono i miei alcolici, rubano il mio oro e il mio argento e mi chiamano ubriacone” sussurrò tra sé.

Era in cucina. La luce entrava dalle finestre. Era il grande giorno della sua vita. I suoi pensieri ronzavano come api intorno alla testa. Dondolando nei cieli della sua memoria, cercando di intravedere nei recessi del subconscio, sentiva solo un eco e si domandava se avesse un potere vincolante su di lui. Sono nato nel buio. Sono stato sfamato e vestito e viziato nella luce. E ora devo finire nell’oscurità. Non ricordo il buio della mia nascita e disprezzo la morte – così, dopo tutto, sono messicano. Rise. Ma la mia morte avverrà nella luce. Mi completerà. L’oscurità della mia nascita, l’oscuro mistero dell’imminente morte, la luce della salvezza, è tutto lì, alla fine del corridoio. Ma cosa, cos’è quello? C’è la Francia laggiù, in fondo al corridoio? E chi è quello? Ma certo, è Enrique!

Ronald de Ronaldo camminò in punta di piedi fino al tavolo da lavoro, frugò nello scaffale dei coltelli ne estrasse uno e lo esaminò. “No!” disse “Troppo largo.”

Poi, prese un coltello dalla lama corta. Inutile.

Il terzo era pesante e duro, con una lunga lama che si affusolava gradualmente in una punta acuminata. Mise il coltello sul tavolo e cominciò a palparsi le tempie e dietro la testa, il viso gonfio increspato in un sorriso soddisfatto.

“Qui a destra, dietro il lobo dell’orecchio. E’ dolce e gentile.”

Sbirciò nel salone e vide dov’era Enrique: era ancora lì, disteso sulla pancia, la testa che ciondolava dal lato del divano.

“Perfetto, perfetto, perfetto. Sono un ubriaco, eh? Non mi conosci, non mi conosci per niente, giovanotto. Ora conoscerai chi sono veramente.”

Si toccò la base del cranio e cercò il punto centrale più invitante e dolce. “Andrà benissimo.”

Il Conte Ronaldo de Ronaldo Bonnefont aprì il cassetto alcune volte prima di trovare lo strumento adatto, un pesante martello di ferro con una larga testa. “Andrà più che bene.”

Scartando l’idea di fumarsi prima una sigaretta, entrò nel salone in punta di piedi, si chinò sul bellissimo Enrique, divise i ricci biondi dietro la testa, posizionò il coltello nel punto delicato alla base del cranio, sollevò il martello, e guardò dritto negli occhi sorridenti di Enrique.

Restò senza fiato per il dolore quando una forte mano gli afferrò il polso e il coltello cadde sul pavimento di terracotta facendo rumore. Gli altri si alzarono subito fra risate, grida e applausi.

Era un altro sogno. La stanza si riempì di persone. Premendo e spingendo intorno a lui, sotto di lui, sopra di lui. Gli tolsero la vestaglia. Lunghe unghie lo graffiarono. Delle mani gli tiravano le mutande. Gli scompigliarono i capelli e lo fecero inciampare mentre barcollava per la stanza. Grosse risate. Grida “Lascialo a me!” e “lasciamelo adesso” e poi “fuori con lui” e “via con lui”. “No, no!” pensò di aver sentito il grido di Enrique. “Non gli fate male, è così fragile. Non gli fate male.” Ancora più risate e colpi al suo didietro mentre lo spingevano fuori dalla porta principale.

Il Conte Ronald de Ronaldo si guardò intorno nel suo piccolo giardino. Gli arbusti erano così scheletrici, secchi, trascurati. Mucchi di polvere facevano mulinelli in strada. Il sole era caldo, ora. Si tirò su le mutande e picchiò alla porta. Suonò il campanello. Non funzionava. Dentro era silenzioso. Sapeva che lo stavano guardando attraverso le tende. Saltò gli arbusti e bussò ai vetri delle finestre, chiamando a voce bassa “Lasciatemi entrare, aprite la porta per favore, stavo solo scherzando. Aiutami Enrique!”

Silenzio. Silenzio.

 

10.

 

Con la guancia ancora appoggiata al vetro freddo della finestra, vide la macchina della polizia avanzare silenziosamente nel viale. Silenziosamente. Trattenne il fiato. Avrebbe dovuto nascondersi. Stavano venendo a prenderlo per portarlo via. I due uomini in uniforme entrarono nel giardino.

Enrique apparve alla porta tenendo il coltello fra le mani. “Ha cercato di uccidermi.” gridò e gettò la vestaglia di Ronald nel giardino. “Voleva tagliarmi la gola.”

“Potrò vedere subito il Capitano, come sempre?” chiese altezzosamente il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont ai due poliziotti che lo avevano portato nel basso edificio a lui tanto familiare. Si ritrasse istintivamente per il forte odore che emanava dal grande atrio e che gli colpì le narici. Avrebbe dovuto attraversare quell’atrio fino all’ufficio del Capitano dove gli avrebbero offerto un caffè, dove, con un triste sguardo di contrizione sul viso, avrebbe sopportato la solita lettura e la seguente umiliazione prima che il Capitano esigesse una multa di 1000 pesos. Oh verguenza! Poi il bravo ufficiale, il paziente Capitano avrebbe chiamato i suoi uomini per riportarlo a casa.

“Il Capitano non c’è oggi,” disse uno dei poliziotti, guidandolo gentilmente in fondo all’atrio. “Dovrai aspettare il tuo turno.”

“Dove mi stai portando allora?” chiese “ Posso aspettare nel suo ufficio, come sempre.”

“Non questa volta,” disse l’altro, sorridendo al compagno, e girarono a sinistra nel dedalo di corridoi. “Questa volta puoi aspettare insieme agli altri.”

Poteva già sentire il chiasso delle grida e dei canti di ubriachi prima di trovarsi di fronte ad un’enorme gabbia, una specie di stanza circondata da sbarre di ferro. Aprirono la stretta porta e si sbalordì dei forti odori di tamales, tequila, sudore, urina e scarichi aperti. Lo spinsero nella grande stanza.

Adesso il rumore era assordante: grida, risate isteriche, canti dal fondo. Un forte raggio di sole colpiva i lati della stanza attraverso le sporche finestre. L’aria era soffocante. Non era una fossa o una segreta come aveva immaginato: gli sembrava di essere circondato dall’oscurità. Perché era lì? Avrebbe dovuto essere in una clinica o almeno nell’ufficio del Capitano. L’accordo era quello. Questo, invece, era incomprensibile. I poliziotti stavano fuori la gabbia e guardavano. Il silenzio aumentava palpabilmente dai gruppi di uomini più vicini a lui verso il fondo.

Fissava, pieno di paura, le scure figure umane nella stretta e lunga stanza. Una vasta massa di umanità si spingeva contro di lui. Si strinse la veste intorno al mento e cercò la luce. I corpi puzzolenti di sudore, tequila e aglio si stringevano intorno a lui. Non c’era un corridoio. Nessun segnale confortante. Nessuna luce. Guardò con orrore una mano scura toccare il lembo della sua veste di seta. Sembrò un segnale: il tocco. Il silenzio esplose in una baraonda. Risate, canzoni e odori lo circondarono, rombando sopra e sotto di lui. Il Conte Ronald de Ronaldo Bonnefont si sentì cadere, sbandare, precipitare in un oscuro abisso. Le sue grida “Capitano, o Mio Capitano,” risuonarono da molto lontano.

 

Gaither Stewart GaitherStewart@libero.it