Scatti alla Bellezza

Un saggio fotografico a Tacoma

di Chance Stevens

 

In cerca di soggetti fotografici, un giorno capitai in Commerce Street, nel centro cittadino. Stavo girovagando su e giù per le vie principali della città, in cerca di scorci deprimenti, non difficili da trovare a Tacoma. Proprio di fronte ad un palazzo apparve una folla e, avvicinandomi ulteriormente, potei constatare che si trattava di una specie di missione. I miserabili, ammassati, stavano aspettando qualcosa,  probabilmente cibo. Carrelli della spesa, bottiglie di birra in sacchetti di carta, vecchie coperte, tutto era sparpagliato sul marciapiede. Un’altra cosa che ho notato, da quando sono arrivato, è che qui i senzatetto sono più giovani che nelle altre città in cui sono stato. Forse è per via del clima, forse i più vecchi si dedicano ad una vita più facile da senzatetto scendendo al sud. O, per essere più macabri, magari quassù muoiono prima. Di sicuro non riesco a pensare a un destino peggiore di essere indigenti a Tacoma, Washington.

Passai la missione e, subito dopo, addocchiai il soggetto perfetto, una donna, che era accampata sul marciapiede, appoggiata contro una palizzata di compensato da demolizioni. Parcheggiai la macchina giusto dall’altra parte della strada rispetto a lei, afferrai la macchina fotografica e saltai giù.

Lei mi stava guardando mentre attraversavo la strada e camminavo nella sua direzione. Avvicinatomi, le chiesi se potevo scattarle una fotografia.

"Hai soldi?" chiese.

Tirai fuori un paio di dollari dalla tasca dei pantaloni e glieli porsi. Poi, lei si riappoggiò al compensato ed io incominciai a scattare. Aveva un aspetto cencioso, alcuni denti anteriori le mancavano, occhi tristi, pelle macchiata, ecc. Non era imbarazzata dal fatto di essere il soggetto dei miei scatti. Sapeva di esserlo per via del suo aspetto bizzarro. Ne avrebbe ricavato soldi per ubriacarsi. Avevamo un patto.

Fino a quando non incominciai ad avvicinarmi, per alcuni primi piani. Ero proprio sopra di lei, prendendo dei bellissimi scatti. Addosso aveva colori pastello e fluorescenti, un’accozzaglia di avanzi della missione. Contro lo sfondo scuro del legno, ero alle stelle. Ero praticamente su di lei, mio Dio, le stavo fotografando perfino i pori!

A questo punto lei si scostò i capelli dal viso e si raddrizzò. Si passò le dita tra i capelli arruffati e inclinò il viso, come per mettersi in posa. Addolcì lo sguardo e si rilassò. Sorrise.

Voleva avere un bell’aspetto di fronte alla macchina fotografica! Anche se era consapevole di essre stata scelta perché era la più strana di tutti, aveva ancora una parvenza di dannata autostima. E dannazione, si sarebbe mostrata al meglio! Ancora oggi sono tormentato dal ricordo di quel momento.